NOTE BIOGRAFICHE
Antonio Lojudice è nato a Castiglione, frazione di Falerna (Cz) ed è vissuto a Roma.
A dieci anni, osservando il lavoro di un decoratore locale in una chiesa, affascinato dai colori, ha iniziato a dipingere piccole tele. Giovanissimo ha partecipato al Premio d Pittura Città di Pizzo Calabro insieme a maestri come Savelli e Turcato.
Trasferitosi con la famiglia ad Urbino ha studiato incisione all’istituto Statale d’Arte sotto la guida di Castellani e Bruscaglia.
Ha proseguito gli studi di pittura a Roma presso l’istituto Statale d’Arte, con Ziveri si è abilitato all’insegnamento del Disegno nelle scuole medie sfatali. E’ stato docente all’istituto per geometri Ivo Olivetti di Roma e alle Scuole Medie.
Il racconto di un sogno, la visione vulcanica di una colata di magma fluorescente, lo sguardo attonito che focalizza un ipotetico fuoco d’artificio: questi i termini di paragone che possono degnamente celebrare la sequenza di immagini pittoriche e poetiche che Lojudice avvicenda nelle sue tele.
Un’arte recepita e raccontata con la limpidezza dell’acqua sorgiva, con la semplicità delle lucciole che brillano su messi d’estate, inconfondibili nella loro luce proprio come la pittura creativa di questo autore che ci trasmette una sensazione di immediatezza visiva, forte e caratterizzata nei soggetti, rigenerandosi continuamente nell’adattabilità al quotidiano, similmente piena di dilemmi, ebbra di impressioni forti. Una pittura che sostituisce il colore, sia esso usato da olio quanto nell’acrilico, alla materia, differenziandone negli impasti di terre o nelle sabbie di vari colori che determinano una superficie grumosa su cui si lavora.
Esperienza in certo senso vicina alla tradizione di un Burri o un più recente Turcato, quando su superfici informali si stendevano i sacchi del primo, o su fondali gommosi il secondo realizzava le sue visioni spaziali; nel filone di quella stessa ricerca per cui l’autore sa determinare, attraverso l’uso di superfici in rilievo, il movimento.
Ma quello che più sorprendentemente stupisce nell’espressività di Lojudice, nella sua stratificazione dei colori matrici, nella sua complessità vibrante e luminosa, nella sua ricettività che la equipara ad un artistico germoglio da cui si rigenera la vita, è la valenza di una nuova genesi. Raggiunta nel sottinteso parallelismo tra gli strati di colore, quasi falde di una voluta conformazione terrestre, e lo stratificarsi dell’umana esperienza e della sua punizione nella spirale delle bolge dantesche; in un compendio esaustivo del parallelismo tra esperienza artistica e umana. Ed è in questa intuizione che si animano i manichini metafisici della prima maniera, quando le composizioni sacrali trovano nella luce la loro sorgente di vita; giustificando la loro esistenza ignota e la loro matrice generatrice proprio in quelle cromatiche falde scintillanti, nel vibrante giudizio sviluppa, attraverso la potenza dell’impatto visivo, il concetto evangelico del <memento mori>, del <ricordati che sei di polvere>
Poiché dietro la meraviglia della creatività sono sottintese, come nascosto riflesso, le necessità e le inquietudini più profonde. Così come sempre accade in tutte le meraviglie.
il merito della pittura di Tony Lojudice, certamente un uomo di fede,forse è proprio questo: il riuscire a stimolare nell’immediato una emozione sensitiva che poi gradualmente porta al suo superamento. Raggiungendo un quid che è ben diverso dal puro manifestarsi dell’espressione pittorica, che viene raccontato nell’avvicendarsi del tempo, nelle varie forme di cui gli strati cromatici sono espressione e in cui s’intuisce il nascere dello vita, le sue successive metamorfosi, i suoi risvolti sempre più impegnati, l’eterno dubbio che assale l’umano.
Un’arte che trova il suo codice interpretativo nell’uso della materia, nella suo dialettica diversificata e personalizzata che conduce tuttavia ad una interpretazione chiara e univoca, nel progressivo perfezionarsi di un modo espressivo che ne qualifica il contenuto: che è contenuto naturale, così come la sua arte è prettamente naturalistica e ambiguamente figurativa, sempre tesa ad un pronunciamento ricavato dalla contemplazione.
Basta osservare ad esempio l’incastonatura dorata che emerge do certi rilievi, per riconoscervi la luce, il senso del profondo, del mistero, ma allo stesso tempo, proprio a causa della sua essenza naturale, dell’effimero.
In fondo è questa prerogativa che qualifica la forza artistica di Lojudice e che gli consente, all’interno di un contesto materico l’elaborazione di una forma espressiva originale: che è di osservazione, di scoperto, di eterno monito. Una pittura edificante nella genesi della sua aconcettualità, che sa sublimare i risultati ottenuti dall’osservazione attenta e puntuale dell’universo materiale restituendoceli arricchiti di un sottinteso precetto morale.
Pittura docente e pertanto di ammonimento. Pittura di docenza e interpretazione e di indiscutibile successo.
Ferdinando Anselmetti
In un percorso plttorico-materico attraverso tele di medie e grandi dimensioni, si avverte un delicatissimo cambiamento di nuances dal rosso pompeiano intenso,colori come la sabbia, l’avorio, realizzati con detriti e polline di vetro, sabbie, polveri, muffe, come è riportato dalla presentazione di Mario Lunetta per questa mostra di Tony Lojudice, realizzata nello Studio d di Milano.
Nelle tele: “Il Primo raggio” e in 11 Viva n. I” tecniche miste, si vedono delle fasce orizzontali ed oblique costituite, in ordine sparso, da minuscoli pezzi di vetro colorato che danno, insieme al materiale sabbioso, la sensazione primigenia del mare, del silenzio, di zone incontaminate, come di una parte della nostra mente a noi ancora sconosciuta.
La compattezza del materiale che si distende a fasce luminose ridisegna albe e tramonti non visibili ad occhio nudo e sulla tela ma è proprio il gesto del l’artista, dietro l’impasto materico, che riesce a conferire questa sensazione ad uno spettatore più attento e sensibile. Linee d’orizzonte delimitano velatamente un confine immaginario e impenetrabile per cui la sabbiositò del colore, seppur fissato, si perde dietro un altro colore. Grazie ad una forma mentis, per cui ognuno ve de e sente cose diverse di fronte un’opera d’arte, in questo caso non è difficile avere sempre la stessa piacevole sensazione di una pacata poesia che riporta l’uomo ad osservarsi, Il disegno, in questo caso, non è necessario, in quanto non sono i contorni a definire un paesaggio di mare o lunare nei nostri ricordi e attraverso le nostre sensazioni, ma attraverso quello che la materia della natura stessa può offrire. In questa trasposizione di immagini vicine all’arte degli anni 60/70 si ritrova una seconda riscoperta della “materia per cui il piacere tecnico oltre a quello psicologico-creativo si uniscono nella manipolazione di sabbie e della mescolanza del colore che si fissa e rafferma per offrire più soluzioni nello stesso tempo. E’ infatti anche il tempo dell’azione che non è più dinamicamente stressante, ma ritorna a rispettare una ritmicità più naturale e soprattutto più congeniale all’artista.
Maria Elena Crea
Come racconti di una navigazione interiorre, esplorazioni percorse su una natura immaginaria, mentale, i lavori di Tony Lojudice ci invitano ad una percezione sensoriale e psicologica della pittura. Una pittura che, dal suo bagaglio di esperienza pluridecennale in cui ha frequentato ed indagato un’espressività anche figurativa, ci appare ora preziosa e notturna insieme, fondata sull’esaltazione dei suoi valori essenziali: cromatrici e tattili.
Le forme prendono vita per evocazione, tracciate come fenomeni di luce ed ombra che abbiano lasciato un’impressione sulla materia. E le intuiamo, infatti, piuttosto che vederle rappresentate, si mostrano, profili di montagne solcati da una nuvola o contorni di un’isola in una visione aerea, quasi fossero catturate dallo sguardo nell’attimo in cui al trascolorare di un tramonto o di un’alba un riverbero ne illuminasse i rosa e i rossi violacei, i turchesi o i bianchi argentati.
E’ una ricerca di fatto atmosferica ancorché materia quella che muove l’artista a rendere così sensibili e sottili, vibranti e metamorfiche, le superfici corrugate e granulose in cui si stratificano, come fisionomia non solo della materia ma del colore, le sabbie e le scie di frammenti vitrei mobilissime nel loro agglutinarsi ed effondersi. Eppure a tale ricercatezza tecnica corrisponde un atteggiamento decisamente antidecorativo, come dimostra già lo spartito cromatico che combina una gamma personalissima di grigi, azzurro polvere, quel rosso-rosa sempre d’impasto violaceo, e il nero.
Il buio è una costante di questa raffinata pittura; il buio da cui, immaginariamente ma anche visivamente, le forme emergono improvvise, destinate a mutare le proprie sembianze col mutare della luce e dell’aria. Buio che assolve moli diversi: è notte che avanza o recede, il divenire, il tempo; è l’imponderabilità dell’infinito, la profondità del vuoto,l’origine, lo spazio; è l’espressione colta e simbolica di un’astrazione totale, annullamento dal quale la forma può rinascere rudimentale e primitiva.
Quel buio ci appare condizione ancestrale da cui Lojudice riscopre e rigenera una natura carica di suggestioni cosmiche e geologiche.
“Quasi sistematicamente, nella pittura occidentale il paesaggio è stato raffigurato in quanto parte di una totalità il cui ordito di regole e di geometrie implica anche il governo della natura da parte dell’uomo. Ecco perché esso, pure nei casi più ostici e selvaggi, appare come addomesticato da una ratio che non è, alla fine, lontanissima da certi intenti di ordine, di equilibrio, quasi di sottintesa architettura. Artificio e natura svolgono un ruolo complementare che, sia nella sua dolcezza che nel suo furore, contiene una sua pregnanza a una sua interezza circolare, un suo respiro religioso. Non così avviene nei singolari paesaggi di Tony Lojudice, perché essi non ripetono un logos ma lo partoriscono. Vengono davvero dopo, nel nostro dopo postatomico, la grande e grandissima pittura di paesaggio che li ha preceduti negli ultimi cinque secoli. Non sono semplicemente selvaggi, sono ancestrali. Rimandano all’indistinto minerale e tellurico dei primordi di Gea, e appunto per questo la loro è una luce che sale dall’interno, dalle viscere del loro ventre indurito. C’è in essi una fisicità non rappresentata ma imposta dal suo stesso corpo vivente. La loro aura di per sé severamente mortificata, è assolutamente materia e — in senso etimologico — esistenziale, perché ogni diaframma tra I’immagine e la sua densità organolettica è abolito. La distanza è bruciata. La magia dello sguardo ha subito dalla petrosità del tatto una provocazione spietata e senza catarsi. La materia impone i suoi diritti proprio in quanto tale (detriti e polline di vetro, sabbie, polveri, muffe), e in quanto tale si organizza e si fa figura,fantasma, presenza ineludibile. Davanti a questi paesaggi dell’artista si pensa al Montale più ferrigno degli Ossi, quello di ‘Meriggiare pallido e assorto”, quando ribatte a martello: E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia / com’ è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” . Sì, perché le sue muraglie e i suoi cocci il nostro Lojudice se li macina con imperterrita pazienza dentro i suoi magmi e le sue macerie attraversati da colate di luce abbagliante o da torrenti di sangue e fuoco, in una rovina della forma che non è più rappresentazione di nulla, ma solo energia della compattezza che si scompone nelle sue ferite ctonie. Paesaggi lunari, carichi di enigma nella lacerazione delle loro sincopi, spesso concepiti ai confini dell’informale, ma sempre con una corposità visionaria, tra improvvisi bagliori e improvvise anse di tenebra. Fiumi luminescenti, quindi, dentro i catrami e le sabbie sorde, tostate da colori roventi, in un’esplosione di fosfeni dispersi: cosicché l’effetto di questi rossi, violetti, gialli stridenti e azzurri quasi di lapislazzuli è quello di un pianeta che appaia e affondi nell’ombra, si modifichi e crolli nelle sue strutture portanti, si agglutini e si decostruisca dentro un tubo di caleidoscopio, in una slavina di terre di risulta e di ganghe fosforescenti, sotto cieli bassi torvi, tra estrema raffinatezza e
Il cromatismo di questi acrocori misteriosi è sempre assolutamente artificiale e innaturalistico, da sogno o da incubo; e prosegue con implacabile coerenza il discorso sperimentale dell’ultima e affascinante fase di Lojudice, quella degli Alberi. Tutto, così, in questa pittura polimaterica e sfacciatamente polisemitica, è animato da un respiro “geologico” che si fa respiro poetico elementare e insieme complesso: e — come ha già a suo tempo ben notato Marcello Venturoli — si snoda sul filo di una pratico “poveristica” di straordinaria ricchezza inventiva e ritmica, secondo una catena che sembra imprigionare la propria stessa violenza nella crosta aspra della propria pelle; o, per dirla con le parole stesse dell’artista,”delle proprie squame.”
Mario Lunetta
Un’ampia personale di Tony Lojudice è stata ospite del Forte Crest Milano durante la primavera 1998, nell’ambito di una rassegna d’arte contemporanea dedicata al tema della montagna. In mostra sono state presentate alcune tra le più recenti opere dell’artista. Le montagne di Lojudice, fatte da impasti di colore e sabbia, da frammenti di vetro e pietra, paiono l’equivalente pittorico del processo di erosione naturale che incessantemente smussa vette e picchi rocciosi. Come il crinale di un monte, sgretolandosi per effetto del vento e della pioggia, si riduce a cascata di frammenti che, precipitando, si sparpagliano al suolo e suggeriscono torme organiche, così a strutturare i paesaggi di Lojudice è il depositarsi sulla tela di materia di diversa densità e composizione. In Terra viva (1997), ad esempio, un composto sabbioso color antracite forma una fascia scura su cui riposa una banda terrosa dall’orlo arrotondato a cui è contrapposta una zona ocra, spruzzata appena da polvere arancio, mentre frammenti di vetro azzurro e ghiaia completano la tessitura materica. L’uso di schegge vitree e pietruzze colorate evoca la lezione di una delle personalità innovatrici più dirompenti del nostro secolo, Lucio Fontana, che, a partire dagli anni Cinquanta, non esitò a fare uso di questi elementi nei suoi Concetti Spaziali, come contrappunti plastici dei tagli e dei fori. La componente disegnativa, negli ultimi lavori di Lojudice è ridotta al minimo: a una linea lievemente ondulata che si scosta appena dalla regolarità orizzontale e che imita il profilo delle alture, l’incunearsi delle valli e il bordo delle coste. Un’energia vitale pare nascere dall’interno delle opere in mostra composte da materia “povero” e colore puro, le cui tonalità contrastanti sono accostate con la sobrietà elegante e la libertà proprie dei grandi maestri coloristi. I lavori intitolati Terra viva,nati da un’unica intuizione che l’artista è andato rielaborando di opera in opera per saggiare le potenzialità liriche ed espressive, scavano un solco emotivo, portano alla luce la vita latente racchiusa nella materia, ripropongono le metamorfosi generate dalle leggi fisiche dell’universo, quali la trasformazione della roccia che sgretolandosi diventa sabbia e quella del vetro, che in sé mantiene la luce del fuoco e la memoria oscura della terra da cui proviene. Come nella pittura romantica di paesaggio, di fronte alle opere di Lojudice, lo spettatore si confronta con il senso del sublime, di cui percepisce il fascino inquieto e la vertigine.
Elena Balzani
“Stagione compatta e altamente fisionomica questa 1993-94 del pi Antonio Lojudice (nato nel 1935), che io definirei dell’ “albero catturato” entro ovali e reticoli di memoria, ora ricchi di notazioni impressioniste che sembrano frantumarsi e incresparsi in un tessuto cromatico di sabbie e di acrilici, ora riassunti in policromi filamenti grafici, ai ferri corti con scritture di antichi fogli e parole di un “Iettering” desunto dalle neo avanguardie (scritture e lettering, si badi bene, non inglobati a collage, ma riciclati con mano artigiana, secondo l’antico spirito “grafico” urbinate
Questi emblemi di vita o segni conclusi di giorni, di stagioni, taluni ispirati alla terra pugliese e alla cava del padre presso Bitonto, altri alle sorridenti campagne di Urbino dove l’artista ha studiato, non patiscono certo un limite di modi e di soggetti, perché quel suo essere ancora fedele alla pittura di cavalletto, alle sue medio piccole misure, al saggio lirico solitario della pagina di nostalgie specchiata al paesaggio, si caratterizza e, si potrebbe dire, si traveste di talune singolari licenze poetiche: il variare continuo degli stati della materia adoperata nelle chiusure e nelle sprezzature della forma, dei contorni, per cui l‘immagine di Antonio Lojudice è insieme pretesto ed emblema, simbolo per sillabario e memento (nel senso per esempio di una pianta che sfida i secoli, contro il tempo, circonfusa di eterne luci crepuscolari, ridotta a meditata monocromia o quasi), particolare dentro quelle sue lenti di luce o teatri di spazi e tuttavia universo. Tanto che dinanzi ad opere come “1956”, 60 x 80, o “Primavera urbinate N. 1”, entrambe tecniche miste del 1994, ci si appaga del tutto come se l’artista non si fosse mantenuto dentro lo schema dell’ovale.
Insomma le esigenze metriche del suo sonetto, se sono state rispettate, non hanno minimamente motivato il contenuto del carme. Anzi lo hanno esaltato. Prova ne sia il fatto che quando l’artista dipinge la tela a tutto campo, lasciando da parte la maniera dell’oblò, dell’ovale, resta ugualmente se stesso: mi riferisco ai suggestivi dipinti “Ulivo secolare” (40 x 50) e “Radici antiche” (60 x 80) pure del 1994.
Dunque un artista pieno di amore per la natura e per la vita, fatto di memoria fedele, di tenero, concreto modo di render grazie al Creatore.”
Marcello Venturoli
Credo che l’arte, quando è veramente arte, abbia un tale potenziale di suggestione, che permetta all’immagine ispiratrice, ad esempio di un quadro, di rigenerarsi in infiniti interpreti, che a loro volta danno a quell’immagine infinite interpretazioni. Questa premessa, non è che il motivo, per il quale mi accingo ad esprimere le sensazioni che provo di fronte ai tuoi quadri, Antonio,nella consapevolezza di rischiare di scadere nella banalità, come potrebbe capitare al profano, che invano si trova a cercare le parole per giustificare la. evidenza della straordinaria forza di fascinazione, che suscita ciò che è sacro.
Io mi sento come il profano, che cerca invano le parole, pur vivendo come un credente, le tante, diverse emozioni che anche, o meglio soprattutto un quadro, può suscitare.
Un albero secolare sullo sfondo, delle righe di scrittura in primo piano, sabbia, colore e pezzi di vetro colorato. Pochi ingredienti, sempre gli stessi, per i tuoi quadri simili, ma tutti diversi. Nell’ammirarli, la curiosità di leggere ciò che sembra scritto svanisce con la sensazione che è l’idea della scrittura ad essere rappresentata. Un’idea dai contorni indefiniti, come lo sono quei tratti di finto inchiostro che sfumano nell’immagine possente, ma discreta di un albero secolare.
D’un tratto penso che il testo in scrittura corsiva, tranne poche lettere ben disegnate in stampatello,deve essere indecifrabile, perché, paradossalmente, sia comprensibile a tanti e nessuno vi legga la stessa cosa.
Io, catturata dalla luce soffusa d tenui colori pastello, vi leggo l’affermazione che il tempo passa, ma non si annulla ciò che è stato: nel tuo quadro, il tempo si è materializzato in un albero, che continua a vivere, nella scrittura, che come la pittura, è capace di eternare il pensiero. Frammenti del passato che si fondono con il presente di una tecnica insolita, quella della sabbia usata come colore, di pochi pezzi di vetro colorato disposti a mosaico, che danno dinamicità, plasticità all’immagine ed aprono la strada a tantissime altre interpretazioni.
Raffaella Spaziani (10 maggio 1994)
MOSTRE Personali e Collettive
1954 Premio di Pittura “Città di Pizzo” (Vv).
1960 La Sofferenza del Cristo.Galleria L’Agostiniana – Roma.
1960 IV Biennale Nazionale d’Arte SacraContemporanea – Premio Ignis – Antonianodi Bologna.
1961 V Mostra Biennale italiana di Arte Sacra per laCasa – Angelicum – Milano.
1962 Mostra di Artisti partecipanti al Concorso diPittura, Scultura e Incisione – GalleriaNazionale d’Arte Moderna di Roma.
1965 I Mostra Italiana e Internazionale sullaIconografia del Sacro Cuore di GesùPremio Leone Dehon – Bologna.
1966/67 VII Biennale Nazionale d’Arte SacraContemporanea – F. Motta EditoreMilano – Roma (Palazzo dell’Esposizione).
1971 Premio Nazionale di Pittura Figurativa Santa Margherita Ligure.
1972 II Rassegna Internazionale d’Arte FigurativaENDU – Palazzo dell’Esposizione – Roma.
1972 Galleria Evangelisti – Frosinone – Personale.
1974 Hotel Nike – Montecatini Terme – Personale.
1975 Sala Teatro “Reggina Pacis”Fiuggi Terme Personale.
1977 Galleria Giorgi – Firenze – Personale.1986 Sala Comunale – Subiaco – Personale.
1992 Fiera d’Arte Contemporanea”Convention Center” – Los Angeles.
1993 Fiera d’Arte Contemporanea”Trade Center Haruni” – Tokio.
1993 Fiera d’Arte Contemporanea”Jacob Javis Convention Center” – New York.
1993 Art Buyers Caravan – Market Center – Dallas.
1994 Art Buyers CaravanValley Forge Convention Center – Philadelphia.
1994 Fiera Internazionale d’Arte ContemporaneaJacob Javis Convention CenterArtexpo – New York.
1995 Premio Nazionale di Pittura “Città di Ravenna”.
1996 Galleria La Vetrata – Roma – Personale.
1996 Etruriarte 7 – Venturina (Li) – Personale.
1996 Galleria BPM – Sede di Firenze – Personale.
1997 Galleria BPM – Sede di Roma – Personale.
1998 Galleria “Forte Crest” – Milano – Personale.
1999 Nel Segno dell’Uomo “Signum”Galleria 9 Colonne – Ferrara.
2000 Cast Iron Gallery – New York – Personale.
2001 Rassegna d’Arte Contemporanea”Dimensione Spazio” BPM – Sede di Parma.
2002/03 “Omaggio a Cézanne” Rassegna d’Arte Itinerante Milano – Istituto Superiore di Comunicazione;
Bologna – Galleria BPM;
Trento – Galleria 9 Colonne;
Bergamo – Galleria BPM;
Roma – Istituto Superiore di Design.
2004 Spazio per l’Arte Contemporanea Beat 72In Con Temporanea – I linguaggi dell’ArteAss. Culturale Allegramente con il Patrociniodell’VIII Municipio.